«L’ospedale è un luogo di dolore!»- questa massima rimbomba nella mia testa dall’infanzia. E’ un posto che, nell’immaginario e nei sentimenti umani, non ha il primato dell’allegria, a meno che non sia associato ad una nascita ma, a livello statistico, la predominanza lo lega a momenti e sentimenti nefasti.

O’ Cardarelli è l’ospedale più grande del sud Italia. A Napoli è considerato il luogo in cui rifugiarsi in caso di emergenza: un approdo sicuro, l’estremo tentativo, il padre a cui chiedere aiuto, il ventre della madre che ti protegge.

Per questo, non riuscendo a prenotare nella capitale, in tempi rapidi, una gastroscopia per mia madre, la chiave della soluzione si trova naturalmente lì. Alle otto in punto, o quasi, stamattina arriviamo al reparto di gastroenterologia in tre: mia madre, la bisognosa, mio marito, l’ingegnere preciso ed io, la fatalista. Disorientata, nella sala d’attesa, chiedo informazioni agli astanti. Una signora sulla settantina, con i capelli corvini, matitone nero intorno agli occhi e rossetto paonazzo, m’informa sul da farsi e poi invita mia madre a sedersi accanto a lei. Suono più volte al citofono del reparto per avere il numero d’ingresso, nessuno risponde. Poi il miraggio di qualcuno vestito di verde che arriva e sta per digitare il codice segreto di apertura delle porte; approfitto per chiederle come fare. L’appello “signora” e lei mi ascolta, mi risponde e mi dà il numero. Subitaneamente il marito ingegnere mi rimprovera! “Devi chiamarla dottoressa! Non vedi che è vestita di verde! “ Il tono è implacabile. L’errore madornale. Ma penso, tra me e me, che in fondo siamo tutti signore e signori e che, avendomi dato il numero e cercato il nome di mia madre in una lista, era sicuramente un’infermiera. Mi auto-assolvo e distrattamente mi preoccupo per mia madre. Mi rassereno, la donnina corvina la intrattiene mentre aiuta anche tutti i nuovi arrivati, osserva le precedenze e interviene se qualcuno rischia di essere sorpassato, ristabilendo le priorità. Dirige egregiamente il traffico della sala d’attesa. Nulla le sfugge e tutto procede regolarmente, finché un ometto magro, smilzo e azzimato, la fotocopia di Massimo Ranieri senza tinta e con parecchi chili in meno, intima ad un omone grande e grosso e anche piuttosto underground, di chiudere le finestre. Bisogna osservare le direttive ministeriali per evitare gli sprechi di gas che in questo periodo scarseggia! Boh?! I pareri sono discordanti, i toni s’inaspriscono. Le parole anche. Si sta per arrivare alle mani. La signora sentenzia: «o’ dottore sta visitando! Non può essere disturbato». Tutti tacciono! Chi sarà costei? Ho dato per scontato che fosse una paziente, ma, pur essendo arrivata prima di tutti, non è mai entrata in alcun reparto, ambulatorio, sala di visita. Ri- boh?! Mia madre, nel frattempo, è entrata e, dopo un’ora, è anche uscita. Sono distratta da un dottore che passa nel corridoio. E’ vestito di bianco e poi, intravedo all’interno del reparto una donna vestita di rosso. Chiedo spiegazione all’ingegnere e lui, ora più accondiscendente, risponde che la donna vestita di rosso sarà una caposala. Mi sa che è confuso pure lui. E’ difficile stabilire ruoli, gerarchie e mansioni. Al Cardarelli ognuno è se stesso. Si abbattono tutte le barriere e le convenzioni. Tutti fanno tutto. Il disordine, l’ambivalenza e l’incongruenza macinano giorni, mesi ed anni di vite miserabili, di dolori inespressi, di gioie e disperazioni. Un girone infernale composto dalle più svariate tipologie umane che magicamente vive la sua unica ed insostituibile storia.

Tima Dano