La vita dell’essere umano è caratterizzata da passioni, interessi ed inclinazioni ed il cinema è sicuramente una delle forme d’arte che accomuna tutti noi. Ci sono film che hanno fatto sognare, ridere, piangere, insomma provare ogni sorta di sentimento, anche se le vicende sono state vissute in modo riflesso. Il cinema ha, insomma, la stessa funzione della lettura, ma in forma di immagini e secondo l’interpretazione che ne dà la regia.

Ciascuno di noi ha una storia cinematografica del cuore, che ha lasciato un segno, che ha fatto scattare un “click” nella mente e nell’animo.

Il mio click è stato “L’albero di Antonia” di Marleen Gorris, una pellicola diffusa, ma non troppo, a metà degli anni ‘90. Un periodo in cui vivevo la mia giovinezza ed ero in cerca della mia identità, del mio io. Internamente avevo una matassa notevolmente ingarbugliata, questo è innegabile, ma la sensazione di essere “tirata” verso qualcosa che non mi appartenesse era inequivocabile. Il risultato era un senso di oppressione e soffocamento, sicuramente non prodotto da una girandola ormonale, come mi si voleva far credere. Avevo un certo risicato margine di scelta nella mia esistenza purché non mettessi in discussione determinati “valori” etici. Credo che fosse così per la maggior parte delle mie coetanee, ma loro riuscivano a vivere più serenamente questa condizione. Erano integrate, bene o male, nel sistema.

“L’albero di Antonia” ha tolto il velo e posto un’alternativa. E’ stato definito un film femminista e, all’epoca, subì una critica non molto magnanima, nonostante avesse vinto l’oscar per il miglior film straniero nel 1996.

Antonia, alla fine della seconda guerra mondiale ritorna nel borgo rurale di origine, insieme alla figlia Danielle. Lì crea una genealogia tutta al femminile, un matriarcato. Nulla di diverso da quanto milioni di film hanno proposto col sistema patriarcale. Questi, nel genere della saga familiare, hanno sempre messo in scena una discendenza tutta al maschile, in cui la moglie e le donne, giocavano un ruolo collaterale.

Antonia, invece, riserva all’uomo il ruolo da subalterno, neanche da comprimario. E’ una donna pratica e decisa a vivere la propria identità in ogni sua declinazione. Crea un comunità alternativa in cui non ci sono ruoli stereotipati ed in cui ognuna possa far sbocciare liberamente se stessa. Le tipologie umane della famiglia di Antonia sono varie. La figlia Danielle è libera di vivere la propria omosessualità e, quando esprime alla madre il desiderio di avere un figlio senza sposarsi, lei non ne soffoca la scelta, ma si rimbocca le maniche per trovare una soluzione. La nipote Thérèse è una bambina prodigio che viene incentivata e supportata nelle sue capacità. Quando avrà un compagno ed una figlia, potrà continuare il suo lavoro di ricerca in quanto la cura materiale della bambina sarà svolta dal padre. La pronipote Sarah è la copia della bisnonna, imperturbabile e ben conscia che l’unico modo per affrontare la vita è viverla a pieno, fino in fondo.

Alla comunità di Antonia si aggregano altri personaggi: Deedee la scema che viene salvata dalle violenze che subisce in famiglia dal padre e dal fratello, Letta la cui unica propensione è essere in dolce attesa, Willelm lo scemo che però ha la lucidità di comprendere il rispetto di Antonia nei suoi confronti, Dito storto, un filosofo ed intellettuale, pessimista e rassegnato che non ha il coraggio di affrontare la vita e le sue difficoltà.

Il paesino alla fine accetta questa isola ribelle come se si trattasse di un raccolto andato a male. Ne tollera l’esistenza, ma non lo integra. Dal canto suo, il prete cattolico la ostacola, incarnando una religione che ha relegato le donne ad una funzione subalterna.

La chiave di risposta alla mia confusione interna si è rivelata nel momento in cui Sebastian, vedovo con cinque figli chiede ad Antonia la sua mano. Antonia rifiuta e lui, incredulo, facendo leva sul senso di colpa suffragato da un super-io pro-uomo, dice: «Ma i miei figli hanno bisogno di te», come se la donna in generale fosse chiamata ed obbligata moralmente alla cura della famiglia. Antonia risponde: «Ma io non ho bisogno di loro».

Ecco, la società della mia giovinezza e credo che non sia cambiato moltissimo dopo vent’anni e più, concedeva alle donne l’istruzione ed anche un’attività lavorativa purché non rinunciasse a farsi carico della cura, dell’assistenza alla famiglia che, sempre e comunque, doveva rimanere la priorità assoluta, indipendentemente dalle propensioni individuali. L’uomo doveva sempre rimanere al centro e a lui solo competeva il ruolo da protagonista, al quale neanche doveva essere chiesto di rinunciare a qualcosa.

Ancor’oggi, perfino gli uomini che si autodichiarono liberali e democratici non si pongono con una presunzione realmente, profondamente e sinceramente paritaria. Lo si evince da un manifesto sforzo o, quanto meno, da un passaggio mentale che parte dal proprio egocentrismo per spostarsi sull’accettazione dell’altro. Ma trattasi sempre e comunque di un atto di concessione, elargizione, magnanimità e liberalità e mai come dato di fatto scontato della realtà.

Non si era pronti ad accettare “L’albero di Antonia” come una realtà acquisita ed è per questo che è stato definito femminista ed è per questo che è caduto nel dimenticatoio. Per anni e tutt’ora, a volerlo acquistare, si trova solo nella versione in lingua tedesca ed inglese. Solo da poco è disponibile su Amazon Prime.

L’insegnamento di Antonia è stato per me nel fatto che le donne realizzano ciò che vogliono, semplicemente, senza lagnarsi e in modo pragmatico riuscendoci perfino all’interno di un mondo chiuso e fortemente patriarcale come quello contadino. Credo che non si è ancora completamente pronti per “Antonia”, ma come stesso la protagonista ci dice, nonostante il tempo sia un’invenzione dell’uomo e si ripeta sempre uguale a se stesso e nell’attimo in cui tutto finisce con la vita, niente finisce, poiché i semi della parità sono stati gettati e seppur, lentamente, con battute d’arresto e rigurgiti patriarcali, ormai è solo possibile andare avanti.

Fatima Giordano